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Racconti #12 - Quel che faccio è camminare

Uomo che cammina sui pezzi di ghiaccio © Marco (@pochestorie)

Camminare è, da che io ricordi, la mia attività preferita. Che delusione, vero? Tra tutte le millemila cose belle da fare nel mondo, a me piace... beh, camminare. Ebbene sì, sono una persona banale. Ancor meno che ordinaria. Chi mi conosce sa questo di me: che camminoChe mi fermo raramente. Che persevero, che incalzo, che non mollo. Che avanzo, avanzo, avanzo, concentrato sui miei passi e sulla strada che percorro. Non mi lascio distrarre né sviare da nessuno, nossignori! Il mio è un camminare senza indugi o batticuori, un lento procedere verso la fine, un costante spingermi in avanti. In realtà, verso dove io cammini, ecco, questo non lo so. C'è sempre un posto nuovo da raggiungere, una nuova località da scoprire, una nuova meta verso cui tendere. Ho smesso di chiedermi fin dove vorrò arrivare, quel che faccio è camminare. Mi pagano pure, per farlo.

C'è chi mi permette di essere lo sponsor itinerante di molte tipologie di messaggi. Tra i miei committenti si annoverano personaggi di spicco e perfetti sconosciuti, associazioni benefiche e fondazioni di ricerca, brand di abbigliamento sportivo e case farmaceutiche. È molto semplice: loro mi vestono da capo a piedi, mi spiegano per bene per quale causa si battono, io cammino da A a B e nel mezzo mi intervistano i giornalisti. Mi chiedono perché e per chi cammino, mi seguono per un po', mi scattano fotografie e poi tutto finisce. Questo è quanto, nulla di trascendentale. Dopo un po' diventa anzi noioso. Tu guardi gli altri e loro guardano te. Loro ti guardano come se non avessero mai visto prima un uomo che cammina, e tu guardi loro con la pena negli occhi, perché non sanno cosa si perdono. Purtroppo, è tutta la faccenda del "ti-facciamo-diventare-il-nostro-sponsor" che scoccia al sottoscritto, ma ‒ che ci volete fare! ‒ è comunque un lavoro come un altro, un piccolo prezzo da pagare per chi, come me, sente il dovere di camminare. Per questo, mi prendo spesso delle pause per camminare per i fatti miei, nessuna azienda, nessun giornalista, nessun uomo o donna nel raggio di chilometri. Mi pare giusto, sacrosanto addirittura, camminare ogni tanto per me e non per gli altri, solo per me e per me solo. Solo con me e con me solo.

È in momenti del genere che, finalmente, mi lascio andare al delizioso silenzio che ho attorno, non pensando più a nulla se non a mettere un piede dietro l'altro con costanza, senza strafare. La mia mente si svuota completamente, mentre è il mio cuore a riempirsi. Ed è una cosa bella, sissignori, non è una sciempiaggine da filmetto rosa! Posso dirlo con cognizione di causa (cosa mica da poco nei giorni attuali), dato che, prima, cioè una vita fa, quando ancora avevo un cosiddetto lavoro "normale" – ufficio, computer, telefono, riunioni col personale, cravatte e completi, cose così –, era la mente quella sovraccarica, quella piena fino a scoppiare. Ma quella cosa (quel muscolo, in verità) che tutti abbiamo nel petto e che batte io sembravo non averla. Prima, vedevo gente (tanta gente), facevo cose (tante cose), ma la sera, a casa, quell'organo che sentiamo fare tum, tu-tum, tum tum tum, io nemmeno lo sentivo, accidenti! Ora, faccio una sola cosa, camminare. Vedo poca gente, a volte nessuno. Eppure, mi sento vivo, libero e liberato. E adesso, quando cammino, il cuore lo sento forte e chiaro. Lo ascolto spesso, lo odo battere ad ogni respiro, incurante del fatto che causa al suo proprietario (ehm, io) momentanea sordità quando gli sbatte a volume altissimo nelle orecchie. Ma non va mai troppo veloce o troppo piano. Va sempre allo stesso, perfetto, ritmo di sempre. Il ritmo che i miei piedi seguono e il mio respiro con essi. Il ritmo della Terra, credo che sia. Il ritmo dell'Uomo quando la frenesia non lo prende.

Negli ultimi mesi, tuttavia, è sorta una novità. Non saprei dire se bella o brutta. Qualcuno mi segue, ovunque vado. Da lontano, ma non troppo. Non sono i soliti eccitabili che, a fasi alterne, pretendono di fare gli eroi agli occhi del mondo, rubandomi il lavoro e al contempo imitandomi spudoratamente (per inciso, per fortuna con gli anni sono diminuiti ma è arduo spiegare loro che: uno, io non faccio l'eroe e se loro invece lo voglion fare che s'accomodino, ma non a mie spese; due, che nemmeno in mille anni potrebbero fare il mio lavoro come io lo faccio – non per vantarmi, ma chiaramente nessuno riuscirebbe a fare il lavoro di un altro come lo fa costui: o lo farà meglio, o lo farà peggio, non ci sono scappatoie – e tre, che non voglio insegnare il mio mestiere proprio a nessuno: dovrebbero aver imparato a camminare fin da piccoli, dico bene?). Chi mi segue ultimamente è una personcina discreta e silenziosa, con lo zaino in spalla ed un mento testardo che incute soggezione. Una donna. Più o meno della mia età, con un innegabile charme. Senza farmi vedere, a volte vigilo sulla sua incolumità (voglio dire, è pur sempre una donna, anche se tosta), ma lei no, ce la fa, e per ora non l'ho mai vista perdere un colpo. Ogni giorno che passa, la mia curiosità su di lei aumenta, si espande. Chi è? Cosa vuole da me? Perché mi segue da lontano? Non ha famiglia, un uomo, un lavoro, una casa? Non ha paura dei cammini impervi, delle strade sconnesse, dei viottoli ripidi?

Mentre sono assorto in queste riflessioni, una mano afferra la mia. Mi giro di scatto. È lei. Quasi mi salta fuori il cuore dal petto: non m'ero accorto che si fosse avvicinata così tanto, è la prima volta che succede. Sono sbalordito dal tocco della sua mano sulla mia. Mi sta toccando dopo mesi in cui la distanza più vicina che ha messo tra noi è stata di centinaia di metri.
«Ehi», mi fa. Ha una voce musicale, soffice. È la prima volta che la sento.
«Ehi», le rispondo. Cerco di divincolarmi, ma la sua mano non mi lascia.
«So cosa stai pensando», mi dice. La guardo, socchiudo gli occhi. Sembra seria.
«E cioè?», le chiedo.
Lei si avvicina ancora di più: «Siediti con me e te lo dirò».
Mi spinge verso un bar che ho notato appena. Scosta per me la sedia di un tavolino esterno, lei si siede di fronte. La guardo, lei mi guarda. Arriva una cameriera, lei ordina per entrambi. Il silenzio è denso, mi sento quasi in trappola, non riesco a muovermi. Lei non dice nulla, ringrazia quando arrivano le nostre bevande e ripiomba il silenzio. Ci fissiamo, rifiutando entrambi di abbassare gli occhi per primi. 
Prendo un sorso di cappuccino e decido di darci un taglio. «Allora?».
«Ah!», fa lei compiaciuta, «era ora».
«Che cosa?», le chiedo innervosito. Non capisco che mi succede, di solito liquido in fretta le persone come lei, ma ora sono curioso, voglio capire, voglio sapere perché ci siamo fermati. «Era ora che ti decidessi a parlarmi. È bello fermarsi ogni tanto, no? Ma non potevi fermarti senza il mio aiuto», ribatte candida. Sbatto gli occhi. Un vortice di calore mi sale dalla pancia e non ho il coraggio di dirle no, che si sta sbagliando, perché in realtà non so se, davvero, si stia sbagliando. 
«Grazie», le dico invece stupidamente. Ma lei non ritiene che io sia stupido perché risponde «Prego» e poi tutto il suo viso si trasforma quando mi scocca un sorriso da far fermare il traffico, da farmi fermare pure il cuore. Ma no, quello continua - almeno lui! - per la sua strada, per fortuna. Anche se non ho mai visto niente di più bello in vita mia e potrei davvero morire d'infarto, qui e adesso. La mia mente è vuota, non so più nemmeno come mi chiamo. Il mio cuore scoppia, come quando cammino. Eppure ora è pieno di lei e del suo sorriso, ed io non sto camminando. La mia faccia si apre senza ch'io me ne accorga in un sorriso di risposta.
Forse, non è così brutto fermarsi. Forse, mi fermerò qui per un po'. Forse, lei darà un senso al mio fermarmi. E quando tornerò a camminare, stavolta saremo in due.
Dopo non so quanto tempo, ci alziamo da quel tavolo, le nostre mani si toccano nuovamente e i nostri passi, assieme, si avviano verso l'orizzonte, dove il tramonto è già cominciato.

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