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© ferobanjo/CC
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Eredi di una tortura millenaria di vivisezione della coscienza - stando alle parole di un noto professore di filosofia le cui parole, sincerità e coerenza di vita mi intrigano moltissimo - non sempre riusciamo a dire "Questa fu la vita. Orsù da capo!", come Nietzsche scrisse. Quel che è stato, è stato, ma preferiamo metterci una pietra sopra, riporlo in un luogo segreto dentro di noi, in solitudine. Rifletterci su, ma non condividerlo; è dura condividere qualcosa che non ci piace, che ci ha fatto soffrire, la nostra parte peggiore. Eppure, io penso, tenere per sé ciò che è stato, senza provare a redimerlo, è forse più logorante. Il tempo per stare soli, il "rigore e la sublimità in noi stessi", sono necessari, vitali. Eppure, la solitudine non mi trae fuori dalla realtà: mi inabissa meglio in essa per redimerla. Aggiungo: condividendo. Diceva Nietzsche: "I miei nemici sono quelli che vogliono sovvertire tutto senza costruire se stessi". Tornare sui propri passi, riguardare quel che è stato, è bere fino in fondo il calice della sofferenza che ci è piovuta addosso, fino alla feccia. "La vetta del mondo nasce dall'abisso del dolore, retto nella sua insensatezza", così dice il medesimo professore di cui sopra. La verità di ciò che è, è stato e sarà non paralizza solo se è redenta in un'opera d'arte, in poesia. Fare questo è portare un fardello più pesante, è rendersi conto che la solitudine è solo un primo passo, che porta alla condivisione.
"La felicità è reale solo se condivisa": io ci credo, fino in fondo. Basto e non basto a me stessa, e ne sono contenta. Dire sì al piacere è dire sì alla sofferenza, per Goethe, perché la verità è tollerabile solo attraverso la bellezza, la poesia, gli altri. Dicibile solo a margine, che è però il bordo degli altri e della nostra felicità.
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Sara