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Chissà se... #4 - L'inferno o il nulla?

© Baluda
Il “De Amore” di Andrea Cappellano. L’argomento si presenta in un caldo e assolato sabato di fine settembre, in quella che da ormai due settimane è la classe più preparata del liceo: la “sempre giovane” III BCA. Con un sospiro di rimpianto per la ricreazione conclusasi così presto, ad uno ad uno gli studenti si avviano nell'aula a passo claudicante, smentendo il nomignolo a loro affibbiato.
Li aspetta un’estenuante ora di lettere in cui il professore farà di tutto per far entrare nelle loro graziose testoline il concetto di “amor cortese”. Con il passo elastico che lo contraddistingue, entra finalmente anche il prof, saluta con un bel sorriso e siede alla cattedra posta in posizione strategica: proprio di fronte agli studenti. Quindi, con gesti lenti, compila il registro e infine lascia cadere la penna. Alza gli occhi e osserva il gruppo di ragazzi che attende trepidante. Poi si rivolge ad una leggiadra fanciulla dell’ultima fila, tale Giulia, e le fa una domanda che mette in crisi l’intera classe: “Come stai?”. “Bene, grazie”. "Bella cosa sapere che ti senti bene".

Sara e Pamela si scambiano un’occhiata in tralice, ma l’innocente gesto è subito notato dall'occhio di falco del bravo professore: “Queste due si guardano come se dicessero: ma questo è matto!”. Il successivo momento di imbarazzo delle due povere giovani è per fortuna quasi immediatamente fugato dall'intervento di un baldo giovanotto, tale Nicolò, che formula una domanda precisa: “Come mai nel III libro del “De Amore” Andrea Cappellano  ritratta ciò che ha affermato nei primi due?”. Il prof inforca gli occhiali, osserva ben bene il volto di Nicolò e risponde: “Hai ragione. Come mai non ha cancellato i primi due, se non gli garbavano, piuttosto che aggiungerne un terzo nel quale dice tutta un’altra cosa rispetto ai precedenti? C’è qualcuno che ha qualche idea?”. La lampadina si accende nella mente di Valeria la Grande: “Forse è perché Andrea Cappellano, dovendo fare i conti con la Chiesa, ha deciso di “addomesticare” il suo pensiero per salvare la faccia...”. Il viso non troppo segnato del professore si illumina: “Esatto. Dovete sapere che il metodo di “addomesticare” il proprio pensiero esiste da sempre e viene usato per far passare il proprio messaggio in modo camuffato. L’autore sceglie di comportarsi così quando sa che la società condanna la sua opinione: egli però non vi rinuncia, ma è costretto a mimetizzarla...”.

Breve pausa. I ragazzi scribacchiano furiosamente. Non si sente volare una mosca. La spiegazione si fa ancora più avvincente: “Abbiamo parlato di “società”. Mi sovviene ora l’accostamento con il “modus vivendi” di Zygmunt Bauman. In esso la società assume connotati negativi: è liquida. L’uomo primitivo, dice Bauman, era un guardiacaccia, cioè salvaguardava il territorio. Poi si è trasformato in giardiniere ed ha antropizzato la terra, ma a fin di bene, con l’intento di perfezionarla. Ora, però l’uomo è cacciatore ed imperversa con la sua avidità, non curandosi delle conseguenze delle proprie azioni...”. La classe ammutolita segue con gli occhi spalancati. La figura del cacciatore è certamente quella che fa più ribrezzo, ma ciò che più di tutto li spaventa è la consapevolezza di essere tutti un po’ cacciatori. Il prof prosegue imperterrito: “Questo è lo stesso principio che troviamo nell'Adelchi di Manzoni: il male o lo fai o lo subisci! Se non sei un cacciatore, sarai un cacciato!”. Le parole risuonano come una profezia e tutti rabbrividiscono. Una cauta manina si leva. Arianna prende la parola: “Ma, prof, mi riesce inconcepibile pensare che siamo tutti cacciatori!”. Il prof con aria triste: “Ma è così, credimi. Comunque meglio per te se ti è impossibile pensarlo!”. Sara si intromette: “Io penso che questa sia una visione molto pessimistica. Personalmente credo che il bene sia maggiore del male...”. Elena invece afferma: “Per me la differenza sostanziale sta nel fatto che per chi fa il male è più difficile fare il bene, invece per chi fa il bene è molto più facile che faccia il male.” “Diciamo anche per forza di gravità”, sdrammatizza il prof scrivendo sulla lavagna in alto “bene” e in basso “male”.

La lezione continua, ma ciò che rimane nel cuore degli studenti, all'uscita da scuola, è la strana sensazione di malessere che hanno lasciato le parole “Se non sei un cacciatore, sarai un cacciato!”. Tensione e scetticismo nello spazio minuscolo di un cuore di studente. Voglia di non lasciarsi incasellare. Cos'è che, alla fine, spaventa? L’inferno o il nulla?

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