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Racconti #4 - L'arco e le frecce

© Mariavittoria Giaroli Photography

Mi chiamo Irina e non avrei dovuto nascere. La mia mamma non mi voleva. Se vi aspettate, dunque, una bella storia, vi sbagliate. Ma, se vi aspettate una storia lacrimevole e commovente, vi sbagliate allo stesso modo. Perché la mia è una storia di speranza e di forza, una forza che scaturisce solo dall'aver attraversato pezzetti di deserti e di foreste e di gallerie bui e dolorosi i quali, però, una volta lasciati alle spalle, sono diventati frecce nel mio arco. L'arco della mia vita.
Non capisco come ho fatto a lasciarmi convincere a raccontarvi la mia storia: di solito non interessa a nessuno. E di solito io non ho nessuna voglia di raccontarla. Però oggi mi sento diversa: forse perché è il mio compleanno? Non è che non ho mai sperimentato sprazzi di felicità o di fortuna. Anzi. Il mio stesso ritrovamento lo devo a Qualcuno. Qualcuno che non so come chiamare. Lo dicono “Dio”, “Padre”, lo chiamano in molti modi. Io non lo chiamo. Ma so che c'è, altrimenti non sarei qui.

Avevo tre giorni quando sono stata trovata all'interno di un bidone della spazzatura ai lati di una strada di una grigia città industriale del Nord Italia da una donna straniera di mezza età che non si capacitava del fatto che fossi ancora viva. Piangevo disperatamente ed ero così intirizzita dal freddo che la mia pelle aveva una colorazione bluastra. Quella donna si chiamava Magda ed era una badante dell'Est. Mi ha preso in braccio e, senza una parola, mi ha portata a casa sua, mi ha nutrita, vestita, lavata per anni finché non sono stata in grado di camminare e parlare. La prima parola che ho detto è stata “Trilla”.
Lo so, è assurdo. Ma io non avevo mamma e Magda non era una mamma per me. Mi lasciava tutto il giorno a casa, mentre lei lavorava, oppure mi trascinava via con lei, ma non mi ha mai mormorato parole carine, del genere “tutto rosa” che gli adulti usano dire ai bambini piccoli, né mi ha mai dato un bacio, né mi ha mai abbracciato. Ho scoperto queste cose solo a 7 anni, quando ho iniziato ad andare a scuola. Ora di anni ne ho 15 e mi sembra di essere vecchissima. Anche se non faceva la mamma, però, Magda aveva una splendida voce e cantava. Tra le canzoncine che mi sussurrava c'era una ninnananna che iniziava così: “Trilla la campanella...”. Spiegato il mistero della prima parola che ho pronunciato. Contenti?

Pure a me piaceva tantissimo cantare e, accompagnando Magda al lavoro, cantavo con lei tutto il tempo: era il nostro modo di comunicare. Ed era bello. Stavo bene. Quando le persone chiedevano di me a Magda, lei si arrabbiava e mi nascondeva, non voleva mi portassero via. Era arrabbiata anche con me, perché non stavo chiusa in casa e perché avrei dovuto andare a scuola. Un giorno. Forse. La scuola, già. Ricordo il mio primo giorno di scuola: spaesata, attaccata alla sua mano, alla mano di una badante straniera che sapeva poche parole in italiano ed arrossiva di vergogna per qualsiasi cosa. Alla mano di una badante straniera che aveva fatto carte false pur di mandarmi a scuola. Gli altri bambini mi guardavano curiosi ed io non sapevo come comportarmi. Era terribile. Sono stata presa in giro un sacco di volte, anche per via del fatto che ero gracile e magrissima: sembravo un maschietto. Non sapevo parlare e pensavano fossi matta. Non sapevo cosa fosse un abbraccio, un bacio, una carezza, una mamma, un papà. Non sapevo quello che tutti sapevano fin dalla nascita. Non sapevo nemmeno chi ero. Sapevo solo il mio nome: me l'aveva dato Magda, assieme ad una carta d'identità nuova di zecca che era costata tanti soldi.
E poi ho imparato anche di più, ho imparato a capire quando le persone muoiono. Era di notte. Non riuscivo a dormire e Magda era distesa vicino a me. Mi sono girata verso di lei per dirle che avevo fame, quando il suo braccio si è irrigidito e lei ha aperto gli occhi, guardandomi fissa. Chissà a cosa pensava? Chissà cosa ha visto? L'ho vista morire così. Bocca e occhi spalancati nel vuoto. Sola, vicino a me, in quel nostro lettuccio dove dormivamo. Avevo circa 10 anni, non mi ricordo bene. Sono stata con lei per due giorni, poi è arrivato qualcuno che mi ha portata via. Non l'ho più rivista. Non ho più rivisto le due stanze dove vivevamo. Mi sono ritrovata da sola, ancora più sola.

Guardavo la signorina che stava al di là della scrivania di fronte alla quale ero seduta e non capivo cosa mi stesse dicendo. Non capivo nulla. Sentivo solo tanto male al petto, ma avevo gli occhi asciutti. Mi chiamava e mi diceva cose strane, parlava di “casa-famiglia”. Quella parola non faceva parte del mio scarno vocabolario. Ora sono qui, in quell'edificio che pochi conoscono e che la gente comune chiama “riformatorio”. Buffa parola. Deve “riformare”? Ridare-la-forma? E a chi deve ridare-una-forma? A noi ragazzi che qui ci abitiamo?
Come sono finita qui?, mi chiederete. Ecco una domanda a cui trovo difficile dare una risposta. In casa-famiglia non voglio ritornare mai più. Vivevo lì con altri bambini e nessuno di loro mi era amico. Non parlavo con nessuno. Non facevo niente. Semplicemente non ce l'ho fatta. Sono scappata dopo una settimana. Ho trovato il cancello aperto dopo la visita del direttore e, senza farmi vedere, sono uscita di soppiatto. Non avevo nulla con me. Ho camminato e camminato fino ad una fermata dell'autobus, poi sono salita su e mi sono lasciata portare in un posto qualsiasi.

Ho iniziato la mia vita sulla strada e sulla strada ci sono tornata. Per mangiare frugavo in uno dei tanti bidoni della spazzatura che trovavo e fantasticavo: chissà se era quello il bidone dove mi aveva trovato Magda? Quand'era giorno stavo nascosta, perché avevo paura mi trovasse la polizia. Mi ero fatta alcuni “amici della notte”, tanti vecchi barboni che dormivano su sacchi e cartoni, una vecchietta che aveva perso la casa e addirittura alcuni ragazzini della mia età che rubavano per vivere. Mangiare era il mio più grande desiderio ed insieme la mia più grande tortura. Non trovavo quasi niente ed i miei amici erano affamati quanto me. Ho cominciato a rubare guardando come facevano loro. Se sei piccolo è molto più semplice e se sei veloce non ti prenderanno mai. Io ero magra, piccola e velocissima. In poco tempo ho imparato i trucchi del mestiere. Mi appostavo nei punti strategici e lungo le bancarelle dei mercati facevo razzia di mele, entravo anche nei supermercati per rubare pane e biscotti. È stato in un supermercato che, d'un tratto, mi sono trovata fra le braccia di un poliziotto alto e scuro. E da lì sono passata direttamente in riformatorio. Quasi quasi preferivo l'abbraccio del poliziotto! Avevo paura, una paura folle. Ma ora mi sono abituata.
Ci sono stati momenti di crisi, ma ho almeno un tetto sulla testa e qualcosa da mangiare. Ho rubato e questo è sbagliato. Ci sono delle regole da rispettare, e questa è la prima cosa che ho imparato qui. C'è Qualcuno lassù che ci vuole bene nonostante lo schifo che siamo, e questa è la seconda cosa che ho imparato qui. Me l'ha detta suor Eliana, la mia migliore amica. E poi c'è Davide... il figlio del famoso poliziotto di cui ho dovuto subire l'abbraccio. Ed è anche il ragazzo più bello e più dolce del mondo. Vicino a lui so che posso diventare una Irina migliore. Vicino a lui mi rendo conto di quante frecce nel mio arco posso scoccare, perché ora sono diventate frecce, non sono rimaste pietre. Abbiamo messo in piedi una band. Indovinate chi è la cantante?

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