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© James DeMers |
Nel testo "La banalità del male", la filosofa riporta ciò a cui ha assistito in veste di giornalista al processo Eichmann, burocrate nazista. Eichmann, riflette la Arendt, è stato solo una pedina, un capro espiatorio, del tutto incapace alla relazione, a pensare e ad esprimersi se non con frasi fatte.
Da qui si comprende, lei afferma, la banalità del male, poiché esso dipende dall'incapacità di pensare criticamente. Ed è proprio la banalità del male che lo rende particolarmente terribile: coloro che lo compiono diventano allora meri tecnici del male somiglianti tra loro e, soprattutto, somigliantici in tutto e per tutto.
L'individuo deve invece assumere una posizione critica nella società, che però presuppone l'esistenza di una coscienza. L'azione combinata del dialogo interiore e l'esercizio del pensiero fa sviluppare nell'uomo la facoltà del giudizio per discernere il bene dal male. Appunto: se vuoi salvarti, leggi. Esercita una capacità critica. Scrivi. Addirittura così facendo, potresti salvare qualcun altro. Non conformarti. Solo il "conosci te stesso" socratico ci permette di liberarci dai condizionamenti esterni.
"Requisito essenziale per vivere in pace con noi stessi e in armonia con la nostra coscienza è pertanto l'abitudine socratica a condurre tra sé e sé quel dialogo silenzioso chiamato pensiero [...] e meglio di tutto saranno coloro i quali sanno che, qualunque cosa accada, finché viviamo siamo condannati a vivere in compagnia con noi stessi" (Arendt, Boston, 15 marzo 1964).
Una mentalità ampia è la conditio sine qua non per un giudizio corretto. Abbiamo il dovere di pensare: questo il nostro imperativo categorico, unito ad un intelletto che si occupi del mondo e degli uomini anziché di verità assolute ed astratte. Perciò... siamo uomini banali o sappiamo pensare?
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Sara